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Atlantis 03/2024 EDITORIALE
LA RESPONSABILITÀ DI "FARE" CULTURA
In un contesto, anche globale, che ci obbliga a rivedere le nostre idee, le nostre categorie di pensiero perché le categorie e le loro impostazioni invecchiano, è opportuno, se non necessario, stabilire alcuni punti fermi sul significato di "fare" cultura.
Una civiltà si regge sul suo impianto culturale. La cultura, infatti, è il risultato delle manifestazioni ideali di un'epoca. Per l'illuminismo, coincide con il complesso di cognizioni acquisite dall'umanità, le quali devono essere trasmesse da una generazione all'altra e accresciute attraverso la razionalità propria dell'uomo. Se l'illuminismo è la comunicabilità del sapere, l'umanesimo è il mettere al centro del sapere l'uomo.
Dalle traumatiche restrizioni dei tempi del covid, si è passati progressivamente ad una crescita incalzante di spettacoli pubblici, concerti, occasioni di intrattenimento, presentazioni di libri e di personaggi celebrati dal sistema cine-televisivo, che hanno riempito piazze e parchi, auditori e teatri. Un'esplosione liberatoria, probabilmente dettata dalla voglia di comunità e divertimento collettivo. Il tutto ha prodotto (e continuerà a farlo) animazione dei centri cittadini grandi e piccoli, impulso al consumo commerciale, riqualificazione e rilancio di molte aree con rivalutazione anche immobiliare delle stesse. Tutto bene, dunque, soprattutto per chi, da sincero liberale crede nel libero scambio e nella creazione di valore economico. Ma spettacolo, intrattenimento e divertimento sono sempre sinonimi di "produzione" culturale? No, tant'è vero che la maggior parte di queste iniziative sono sostenute da Assessorati al Commercio o al Turismo e da associazioni delle categorie imprenditoriali. Tuttavia, nell'organizzazione di questi eventi, si dovrebbe fare attenzione non solo alla quantità ma anche alla qualità, evitando di piegare la cultura (solo) al risultato economico. Porre l'accento (soprattutto se i finanziamenti provengono da Comuni e Regioni) sul fatto che la produzione culturale (di qualità) sia del territorio per il territorio e non una colonizzazione del sistema nazional-popolare, volto a sfruttare la periferia (in questo senso sì molto provinciale).
Scelte non facili perché il consenso purtroppo si misura con la quantità e il successo dell' "audience" mentre la qualità dell'offerta culturale (anche informativa) è molto più impopolare e rischiosa. E qui sta tutta la differenza tra la produzione culturale di qualità e i suoi effetti economici diretti e indiretti. Questa non può inseguire (solo) il profitto immediato in quanto ha un altro fine che, alla resa dei conti, è lo stesso. Ma senza un effetto immediato e a medio e lungo termine. Come scrive Manlio Graziano, esperto di strategia, è la differenza tra essere "dirigenti" (produrre idee nuove e avere il coraggio di proporle al pubblico e convincerlo della loro bontà) ed essere "diretti" (inseguire cioè il consenso del pubblico).
Una responsabilità ancora superiore per chi è un operatore culturale e un "dirigente" politico a in Italia ed in Europa, topoi di immenso significato reale ed evocativo.
In conclusione, cultura non è (solo) divertimento. Cultura è ciò che crea coscienza per le scelte future. Scelte che lascino alle successive generazioni la certezza che abbiamo lasciato loro una civiltà non "effimera".
Atlantis 03/2024 EDITORIAL
THE RESPONSABILITY OF "MAKING" CULTURE
In a context, even global, that forces us to review our ideas, our categories of thought because the categories and their settings age, it is appropriate, if not necessary, to establish some fixed points on the meaning of "making" culture.
A civilization is based on its cultural system. Culture, in fact, is the result of the ideal manifestations of an era. For the Enlightenment, it coincides with the complex of knowledge acquired by humanity, which must be transmitted from one generation to the next and increased through man's own rationality. If the Enlightenment is the communicability of knowledge, humanism is putting man at the center of knowledge.
From the traumatic restrictions of the times of covid, we have gradually moved on to a pressing growth of public shows, concerts, entertainment opportunities, presentations of books and characters celebrated by the film-television system, which have filled squares and parks, auditoriums and theaters. A liberating explosion, probably dictated by the desire for community and collective fun. All of this has produced (and will continue to do so) animation of large and small city centers, impulse to commercial consumption, redevelopment and relaunch of many areas with revaluation of their real estate as well. All good, then, especially for those who, as sincere liberals, believe in free exchange and the creation of economic value. But are spectacle, entertainment and fun always synonymous with cultural "production"?