LETTERE SUL MONDO dal CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI
Gabriele Checchia
Il vertice NATO di Vilnius e i suoi esiti: una riflessione
Non più notizia da prima pagina è forse ora possibile, a qualche giorno dal suo svolgimento, provare a trarre le prime conclusioni sul piano geo-politico del vertice NATO tenutosi a Vilnius lo scorso 11 e 12 luglio.
Certamente uno dei più importanti di questi ultimi anni non foss’altro che per il momento in cui ha avuto luogo: a poco più di 500 giorni dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina e mentre non si intravedono ancora spiragli per l’avvio di un negoziato di pace (nonostante l’impegno di attori importanti e ben intenzionati come la Santa Sede, da ultimo attraverso la missione del Cardinale Zuppi a Kyiv e quindi a Mosca).
Proverò a farlo soffermandomi su quelli che mi paiono i 5 versanti fondamentali - e di più marcata valenza politica - del Summit da poco conclusosi e degli eventi che l’hanno accompagnato (a cominciare dalla pressoché contestuale riunione, sempre nella capitale lituana, del leader del G7): 1) la questione dell’adesione dell’Ucraina alla NATO; 2) le garanzie di sicurezza offerte a Kyiv appunto dai Capi di Stato e Governo del G7; 3) i dettagliati piani di difesa a 360 gradi (come fortemente auspicato dal nostro Paese, nel segno di una NATO che non guardi solo alle minacce pur gravi provenienti da est) messi a punto dai vertici militari dell’Alleanza e avallati a Vilnius; 4) l’attenzione da riservare al fianco sud dell’Alleanza e relative sfide (ancora una volta in linea con le aspettative ripetutamente manifestate al riguardo dal nostro Paese); 5) il via libera da parte turca all’adesione della Svezia alla NATO anche se (come è parso comprendere da successive dichiarazioni del Presidente Erdogan) con ogni probabilità non prima del prossimo mese di ottobre dovendosi tenere conto dei tempi che saranno necessari perché il via libera presidenziale possa essere ratificato dalla Grande Assemblea (il Parlamento turco).
Il tutto sullo sfondo della decisione - adottata dal Consiglio Atlantico praticamente alla vigilia del Vertice - di estendere per un altro anno il mandato del norvegese Jens Stoltenberg quale Segretario Generale dell’Organizzazione (data la difficoltà di individuare, aspetto ancor più delicato in un momento così critico del confronto con Mosca, un altro nominativo di peso in grado di raccogliere il consenso dei 31 Stati membri).
La questione dell’adesione dell’Ucraina
È il punto che si riteneva, sino alla vigilia, potesse fare la differenza tra il successo e il fallimento del Vertice ove non si fosse trovata una formula in grado di soddisfare al contempo le aspettative di Kyiv e degli alleati che più spingevano per un ingresso in tempi stretti e ben definiti (in primis la Polonia e le tre Repubbliche Baltiche ma anche, seppur in maniera meno assertiva, la Francia e il Regno Unito) e quelle degli alleati più prudenti al riguardo.
A cominciare (oltre che dalla Germania di Scholz) dagli Stati Uniti, comprensibilmente timorosi degli effetti traumatici che avrebbe potuto produrre, nei rapporti tra l’Alleanza e la Federazione Russa, un invito a Kyiv ad aderire con il conflitto ancora in atto e il rischio di vedere la NATO trascinata, ai sensi dell’art.5 del Trattato di Washington, in un confronto diretto con Mosca dalle conseguenze non prevedibili e potenzialmente tremende.
La soluzione trovata mi sembra la più ragionevole e in grado di evitare pericolose accelerazioni senza, al contempo, suscitare nella parte ucraina (e negli alleati più inclini a un ingresso immediato di Kyiv) sentimenti non superabili di irritazione e disappunto.
L’Ucraina verrà invitata - recita il paragrafo 11 delle conclusioni - a entrare nella NATO “quando gli Alleati saranno d’accordo e quando le condizioni saranno soddisfatte”. Si tratta di fase che lascia volutamente nel vago tempi, modi e procedure della futura adesione.
Ma che consente, da un lato, ai leader atlantici di coprire le persistenti diversità di vedute appunto su tempi, modi e procedure; dall’altro, di ribadire all’Ucraina, in lotta per la sua sovranità e indipendenza, un forte e convinto sostegno politico e militare da parte dell’Alleanza.
Il futuro dell’Ucraina è nella NATO, recita sempre il Comunicato, e i 31 alleati non mancano nel contesto di reiterare “l’incrollabile solidarietà con il governo e il popolo ucraini nell’eroica difesa della loro nazione, del loro territorio e dei nostri valori comuni”.
Si tratta dunque - al di là dell’iniziale disappunto di Zelensnky poi rientrato dopo un colloquio chiarificatore col Presidente Biden - di linguaggio decisamente più esplicito e solidale di quello contenuto al riguardo nelle conclusioni del vertice di Bucarest del 2008 (nel quale fu solo promessa una futura adesione a Ucraina Georgia). E di un segnale di vicinanza ulteriormente rafforzato da altri due tratti distintivi delle conclusioni di Vilnius: il primo rappresentato dal fatto che esse lasciano cadere per l’Ucraina il requisito del “Membership Action Plan” quale primo ineludibile passo per l’adesione, mettendo così di fatto l’ingresso di Kyiv nell’Alleanza su una corsia preferenziale; il secondo dalla creazione, decisa a Vilnius, di un Consiglio NATO - Ucraina attivabile in qualsiasi momento e che ha tenuto la sua prima riunione il secondo giorno del vertice. Consiglio che (in maniera non dissimile da quanto previsto dall’art.4 del Trattato istitutivo per gli Stati membri) consentirà di fatto alla dirigenza ucraina di chiedere, in qualsiasi momento, consultazioni con gli alleati su tutti i temi di sicurezza anche al di là di quelli connessi al conflitto in atto.
Vi è poi, ulteriore motivo di conforto per Kyiv, il linguaggio quanto mai fermo adottato dal Comunicato nei confronti della Federazione Russa (che viene definita” la più grave e diretta minaccia alla sicurezza degli Alleati e alla pace e stabilità dell’area euro-atlantica”) nonché - come precisato da Stoltenberg in conferenza stampa - il pacchetto di aiuti e appoggio politico offerto all’Ucraina dagli alleati “che non ha precedenti neppure ai tempi della guerra fredda”.
Basti pensare, nelle parole del Segretario Generale, “al piano pluriennale di assistenza di 500 milioni di euro l’anno per modernizzare le forze armate ucraine rendendole completamente interoperabili con quelle atlantiche “. Né, aggiungo, vanno dimenticati gli impegni di aiuto militare bilaterale (come quelli di ulteriori carri armati e missili a lunga gittata annunziati proprio a Vilnius da Francia, Germania e Norvegia).
In sostanza, come osserva Sergio Fabbrini in un suo pregevole editoriale su “Il Sole 24 Ore”, questa volta - a differenza di quanto avvenuto lo scorso anno a Madrid - “nessun Capo di Governo (neppure il turco Recep Tayip Erdogan) ha mostrato di avere dubbi sulla natura del regime russo, aggressivo e imperialista per sua dinamica endogena e non già per reazione a sfide esogene”.
Che la formula contenuta nelle conclusioni del vertice sia alla fine un buon compromesso è ammesso anche dalla premier estone Kaja Kallas, capofila di quanti avrebbero voluto scadenze precise e tempi rapidi per l’adesione, che si è così espressa: “Capisco la delusione di Zelensky ma c’è una volontà chiara di avere l’Ucraina nella NATO”.
Il pacchetto di aiuti del G7
In “un gioco di sponda” con l’Alleanza - e a conferma della coesione sul tema Ucraina e sul contenimento dell’aggressività russa - la riunione nel formato G7 svoltasi a margine del vertice atlantico ha consentito alla “cabina di regia” dell’Occidente globale di contribuire anch’essa a rassicurare Kyiv sullo spessore e qualità dell’impegno dei nostri Paesi a favore della causa ucraina.
Ho parlato per il G7 di “gioco di sponda con la NATO” e di “cabina di regia” dell’Occidente globale ma sarebbe forse più appropriato considerarlo ormai (e il fatto che si sia riunito durante il vertice di Vilnius ne è la conferma) come la primaria istanza politica - ed economica quando necessario - dei Paesi che costituiscono il cuore dell’alleanza occidentale.
E forum di discussione principale, attivabile in ogni momento a seconda delle necessità, dei loro interessi in tutti i settori strategici e sotto ogni profilo.
Con una NATO confermata (e che direi esce ulteriormente rafforzata e coesa dal summit di Vilnius) nella funzione di insostituibile alleanza politico-militare difensiva, con la possibilità di allargarne - ove opportuno - la sfera di interesse e monitoraggio, in consultazione coi partner di volta in volta pertinenti, ad aree geo-politiche che possono andare anche al di là del perimetro euro-atlantico in senso stretto.
Per tornare alle decisioni adottate a Vilnius nel formato G7 si legge nel comunicato finale dell’istanza in questione: “Ribadiamo il nostro incrollabile impegno verso l’obiettivo di un’Ucraina libera, indipendente, democratica e sovrana all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti e in grado di difendersi e scoraggiare future aggressioni. Affermiamo che la sicurezza dell’Ucraina è parte integrante della sicurezza della regione euro-atlantica”. Linguaggio, dunque, non si potrebbe più esplicito che viene ad aggiungersi ai sopracitati segnali di vicinanza all’Ucraina aggredita offerti dagli alleati in sede di Vertice.
Tra le garanzie di sicurezza - che hanno certo non poco contribuito al ridimensionamento delle iniziali espressioni di frustrazione di Zelensky - il G7 prevede “un equipaggiamento militare moderno nei domini terrestre, aereo e marittimo, dando priorità (in linea con le note aspettative di Kyiv) alla difesa aerea, all’artiglieria a lungo raggio, ai veicoli blindati e ad altre capacità chiave come l’aviazione da combattimento”. Nonché, prosegue il documento, “il sostegno allo sviluppo della base industriale ucraina nel settore della difesa e l’addestramento delle forze ucraine così come una condivisione in materia di intelligence”.
Se questa non è cooperazione assimilabile per intensità e qualità a quella in atto tra gli Stati membri dell’Alleanza, siamo certo molto vicini…
Significativamente però - anche per tenere conto delle perplessità, circa la qualità della “governance” che caratterizza da sempre l’Ucraina, presenti in settori non secondari dell’opinione pubblica statunitense (specie in campo Repubblicano) ed europea - il G7 sottolinea che l’appoggio in parola è legato a precise condizioni politiche. Chiede quindi a Kyiv di proseguire “ nell’attuazione delle riforme relative tra l’altro al sistema giudiziario, alla lotta alla corruzione e alla libertà dei media”. Kyiv deve proseguire, si afferma, nel riformare la difesa” anche rafforzando il controllo civile e democratico delle forze armate”.
I piani di difesa dell’Alleanza a 360 gradi
Ma, come detto, il vertice di Vilnius (per molti versi epocale) non è stato soltanto dedicato all’Ucraina. Per la prima volta dalla fine della guerra fredda e dal crollo dell’URSS, la NATO si è dotata infatti un piano dettagliato che assicura la sua difesa militare collettiva dall’attacco di una grande potenza come la Russia o da una minaccia terrorista.
Elaborati dal generale Christopher Cavoli, comandante supremo della NATO (SACEUR) e delle forze americane stazionate in Europa, insieme al suo staff, i piani (naturalmente secretati) coprono le tre aree principali sulle quali si estende la responsabilità del Patto atlantico: il territorio settentrionale compreso l’Artico (sempre più destinato a divenire la nuova frontiera del confronto tra l’asse autoritario russo-cinese e quello occidentale); le regioni centrali che comprendono il fianco est, cioè il confine con la Russia, e il sud-est che include oltre al Mar Nero il Mediterraneo.
Come precisa il Capo del Comitato militare della NATO, l’ammiraglio Rob Bauer, “i tre piani regionali spiegano cosa devono fare gli alleati, date le caratteristiche geografiche di ogni area, per dissuadere e difendere lo spazio euro-atlantico in ogni campo (siamo, dunque, sempre in una logica di deterrenza, con buona pace di quanti continuano a parlare di una NATO aggressiva): spazio, terra, mare, aria e cyber”.
Quando i nuovi piani saranno a regime l’Alleanza, continua Bauer, sarà in grado di mobilitare oltre 100.000 soldati in meno di 10 giorni e sino a 300.000 in un mese. Questo ovviamente non è senza costi, tanto che a Vilnius l’obiettivo del 2% del PIL per spese per la difesa - fissato al vertice di Celtic Manor nel 2014 - diventa una base da cui partire e non più il tetto da raggiungere.
Resta naturalmente da vedere se, data l’attuale situazione finanziaria di molti alleati europei, si tratti o meno di obiettivo realistico.
L’avvenuto ingresso della Finlandia e quello, prossimo della Svezia, nell’Alleanza Atlantica
Il via libera di Erdogan in certa misura inatteso (e seppur con i tempi “tecnici” sopra evocati) all’ingresso della Svezia nell’Alleanza rappresenta, come detto, un altro degli sviluppi qualificanti registratisi a Vilnius.
Una volta finalizzato il processo di adesione di Stoccolma il Baltico diverrebbe - come da più d’uno osservato - quasi un mare NATO: dato ancor più rilevante se si considera che proprio a Kaliningrad, sulla costa baltica, ha sede (come in epoca sovietica) il quartier generale della flotta russa del Baltico compresi i sottomarini nucleari. Ne deriva che l’Alleanza, attraverso una Svezia e una Finlandia non più Stati “neutrali”, vedrebbe fortemente accentuate le proprie capacità di monitoraggio e controllo dei movimenti della flotta in parola: ciò che contribuisce a spiegare l’irritazione del Cremlino per l’ingresso a pieno titolo nella NATO di Helsinki e Stoccolma.
La partecipazione delle due capitali - oltre a espandere il territorio dell’Alleanza - aumenterebbe considerevolmente la sua proiezione a nord-est rassicurando in particolare Paesi baltici e Polonia ed eliminando al contempo il “cuscinetto” formato da paesi militarmente non allineati tra la NATO e la Federazione Russa.
Si tratta inoltre, almeno in parte, di territori davvero strategici come nel caso dell’isola svedese di Gotland nel mezzo del Mar Baltico a lungo contesa perché fondamentale come base operativa da cui condurre potenziali operazioni via terra, mare e aria. Per non parlare del contributo che le due capitali potrebbero portare all’Alleanza in termini di difesa aerea, con Helsinki che ha ad esempio recentemente deciso l’acquisto di ben 64 F35 e che ha altresì un numeroso e ben addestrato esercito (essendo tra l’altro in Finlandia la leva ancora obbligatoria).
Si tratta naturalmente di comprendere che cosa Erdogan abbia ottenuto da Washington quale contropartita per tale importante apertura. Più in particolare, di capire se il “trade off” di cui si parla si limiti al venir meno del veto dell’amministrazione Biden alla vendita di F16 ad Ankara - ma l’ultima parola spetterà al Congresso - e alla fornitura di pezzi di ricambio e addestramento piloti o se le concessioni americane vadano ancora più in là.
E abbiano, magari, ad oggetto dossier particolarmente sensibili come quello dei margini di manovra da riconoscere alla Turchia nel contrasto alle formazioni curde nel nord della Siria o del riconoscimento ad Ankara di ulteriori spazi di azione per esempio in Libia (ciò che non sarebbe per noi sviluppo positivo). Il clima decisamente cordiale del lungo colloquio a Vilnius tra Biden ed Erdogan fa comunque di quest’ultimo, forte anche della sua recente riconferma alla guida del suo paese, uno dei leader che possono maggiormente dirsi soddisfatti per l’esito del Summit nella capitale lituana anche alla luce della relativa freddezza che aveva sinora caratterizzato il suo rapporto con l’attuale inquilino della Casa Bianca.
Né mi sento del tutto di escludere che, nel corso dell’incontro, passi avanti di qualche natura, graditi agli Stati Uniti, siano stati realizzati anche sulla nota controversa questione dell’acquisto da parte turca (fortemente osteggiato dagli USA e dalla NATO nel suo complesso) del sistema antimissile russo S400.
L’attenzione al fianco sud
La conferma dell’attenzione dell’Alleanza anche alle sfide provenienti dal fianco sud è un altro dei dati importanti emersi dal vertice appena conclusosi e in linea con le nostre aspettative.
Essa ha trovato espressione non solo nel citato inserimento dello scacchiere mediterraneo tra quelli al centro dei piani di difesa alleati che ho sopra menzionato ma anche nel fatto che gli alleati hanno evidenziato, nelle conclusioni del Summit, che “le sfide interconnesse di sicurezza, demografiche, economiche e politiche nel vicinato meridionale sono aggravate dall’impatto del cambiamento climatico, dalla fragilità delle istituzioni, dall’emergenza sanitaria e dall’insicurezza alimentare”.
Ciò rende la regione, si osserva, un terreno fertile per gruppi armati, organizzazioni terroristiche, e per interferenze “destabilizzanti e coercitive da parte di concorrenti strategici” (il pertinente paragrafo del Comunicato menziona esplicitamente la Russia come “fattore di destabilizzazione e alimentatore di tensioni nell’area” ma è verosimile che con l’espressione “concorrenti strategici” gli alleati abbiano voluto riferirsi, seppur indirettamente, anche alla pervasiva presenza cinese nel continente africano).
Per tutti questi motivi, ed è il dato maggiormente innovativo emerso sul tema da Vilnius, i Capi di Stato e Governo “hanno dato mandato al Consiglio Atlantico di avviare una riflessione completa e approfondita sulle minacce e le sfide esistenti ed emergenti nonché sulle opportunità di impegno con i nostri partner, le organizzazioni internazionali e altri attori rilevanti della regione, da presentare al prossimo vertice del 2024”.
La strada è dunque tracciata (e non è poca cosa) anche se la discussione di fondo è rimandata al summit di Washington quando la NATO festeggerà il suo 75mo anniversario.
E l’anno prossimo, merita rilevare, la presidenza del G7 spetterà al nostro Paese che ha proprio nel vicinato meridionale l’area di maggior interesse strategico. E sarà con ogni probabilità proprio l’attenzione al “Sud globale” a caratterizzare sul piano geo-politico il prossimo vertice G7 sotto presidenza italiana rispetto, ad esempio, a quello tenutosi quest’anno a Hiroshima.
Vi è chi sostiene che, con riferimento al fianco sud, a Vilnius si poteva ottenere ancora di più. Ritengo tuttavia, data la perdurante gravità e urgenza della crisi ucraina, che il nostro governo e la nostra diplomazia si siano mossi al meglio e che difficilmente si sarebbe potuto ottenere di più.
e all’Indo-Pacifico …
L’attenzione all’Indo-Pacifico e alla sfida cinese è l’altro dossier che non poteva non figurare, in continuità in questo caso con le conclusioni del vertice di Madrid, nel comunicato finale del vertice di Vilnius.
Figurano anche questa volta espressioni severe - ma attente non rompere del tutto i ponti - nei confronti di Pechino e delle sue “politiche coercitive” Questo, a conferma di quanto sopra, il testo del relativo paragrafo delle Conclusioni: “Le dichiarate ambizioni della RPC e le sue politiche coercitive appresentano una sfida per la nostra sicurezza, i nostri interessi e i nostri valori. Rimaniamo aperti a un’interazione costruttiva con la Repubblica Popolare Cinese anche per ciò che concerne la costruzione di una trasparenza reciproca, con l’obiettivo di salvaguardare gli interessi di sicurezza dell’Alleanza…”.
Su tale sfondo non casualmente ancora una volta (come a Madrid) sono stati invitati a Vilnius i Primi Ministri dei cosiddetti “Indo-Pacific four”: Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Un formato che appare destinato a essere ormai una costante nei vertici NATO.
A riprova del peso crescente assunto nel dibattito inter-alleato dal quadrante in parola l’Indo- Pacifico è oggetto di menzione esplicita nelle Conclusioni del vertice nei seguenti termini: “L’Indo-Pacifico è importante per la NATO, dato che gli sviluppi in quella regione possono influenzare direttamente la sicurezza euro-atlantica”. Concetto che Stoltenberg ha così, efficacemente, riassunto: “La sicurezza non è questione regionale ma globale”.
Resta però da decidere se - come più o meno esplicitamente auspicato da Stati Uniti e Regno Unito - si debba andare verso una NATO che estende di fatto la sua area di responsabilità al di là del perimetro atlantico o non piuttosto, e più semplicemente, verso una NATO più attenta alle dinamiche indo-pacifiche e alla cooperazione con i partner della regione senza che questo debba implicare, di per sé, una maggiore e più costante e strutturata presenza nell’area.
A tale ultima linea che condivido (quella cioè di una NATO con un approccio globale e non di una NATO globale) si ispira il nostro Paese e la maggioranza degli alleati europei, Francia in primis.
Non a caso Macron si è opposto, a Vilnius, all’apertura di un ufficio dell’Alleanza a Tokyo, facendo valere che “l’Indo-Pacifico non è l’Atlantico del Nord”. Presa di distanza dalla proposta del Segretariato che con ogni probabilità non consentirà la creazione dell’ufficio in parola.
Qualche notazione sui risultati conseguiti nella capitale lituana dall’Italia.
Il nostro Paese e il nostro Presidente del Consiglio possono a mio avviso dirsi (come ha fatto la Presidente Meloni) legittimamente soddisfatti dell’esito della due giorni di Vilnius.
Gli obiettivi che ci stavano maggiormente a cuore sono infatti stati tutti raggiunti: dalla riaffermazione della coesione e solidarietà atlantica, in primis sul cruciale versante del sostegno all’Ucraina confrontata alla brutale aggressione della Russia di Putin, alla ribadita attenzione alleata anche alle sfide provenienti dal fianco sud, al riconoscimento della centralità dello scacchiere mediterraneo per il contrasto al terrorismo e alle reti criminali che prosperano sul traffico di esseri umani.
In sostanza è uscita da Vilnius una conferma di quella NATO capace di esercitare difesa e dissuasione/deterrenza a 360 gradi che l’Italia, da sempre, caldeggia.
Per quanto riguarda più in particolare il nostro Presidente del Consiglio i motivi di compiacimento sono certamente accentuati dal buon esito degli importanti colloqui a margine che il Summit le ha consentito di avere.
Da quello ad ampio spettro col Presidente Biden (che ha nell’occasione formalizzato il suo invito a Giorgia Meloni a recarsi in visita alla Casa Bianca il 27 luglio); a quello con Erdogan (che l’ha invitata ad Ankara), che ha permesso ai due leader di soffermarsi in un clima costruttivo sui tanti temi di interesse comune, (a cominciare dalla lotta al terrorismo e dalla stabilizzazione della Libia e dell’area nord-africana e sub-sahariana oggetto delle perduranti mire russe e della Wagner); a quello con l’omologo britannico Rishi Sunak.
Incontro quest’ultimo che ha permesso ai due capi di governo, che intrattengono relazioni eccellenti, di fare il punto anche sullo stato di avanzamento del progetto italo-britannico-giapponese di aereo da caccia di sesta generazione nell’ambito del “Global combat air programme” (Gcap).
Da ultimo per tornare al vertice, e concludo, la irritata reazione di Mosca al suo esito e sopratutto al fatto che, anche dopo Vilnius, la porta per una futura adesione di Kyiv (ai sensi e nei modi previsti dall’art.10 del Trattato di Washington) resta aperta era, per molti versi, scontata.
L’ingresso dell’Ucraina nella NATO, ha affermato Putin a margine di una conferenza sulla tecnologia tenutasi a Mosca, “rappresenta una minaccia per la sicurezza della Federazione Russa e non migliorerà quella dell’Ucraina. Uno dei motivi dell’operazione speciale è proprio la minaccia che l’Ucraina si unisca alla NATO”. Una reazione dunque che nulla aggiunge all’equazione complessiva.
Parimenti prevedibile il convincimento rinnovato da Biden a Helsinki - in occasione del Summit con i suoi omologhi nordici (Finlandia, Svezia, Danimarca, Norvegia e Islanda) immediatamente successivo a quello di Vilnius - secondo il quale “Putin ha già perso la guerra in Ucraina, che non credo possa continuare per anni poiché Mosca non può mantenerla per sempre dal punto di vista politico ed economico”.
Convincimento cui egli ha coniugato la speranza che la controffensiva di Kyiv “spingerà Mosca a negoziare”, e la certezza che Mosca si asterrà in ogni caso dal ricorso allo strumento nucleare (“non c’è nessuna prospettiva che Putin usi armi nucleari”).
Nessuno può sapere in realtà che piega prenderanno gli eventi anche perché la controffensiva di Kyiv, alla luce di quanto è dato sapere, stenta purtroppo a decollare.
Se mi è consentito, su tale sfondo, formulare un auspicio è che la fiducia riposta da Biden nella ragionevolezza, seppur a termine, dei comportamenti russi (di Putin in primis..) sia destinata, prima o poi, a trovare conferma nei fatti. Ma non mi sento di nutrire certezze in materia….