Iran, da Mahsa Amini al futuro della Repubblica islamica
Le proteste per la morte della giovane, i movimenti giovanili, i problemi economici e i difficili rapporti con curdi e israeliani. Perché quello che accade a Teheran riguarda anche Bruxelles e Washington
Eleonora Lorusso
C’è una data che fa da spartiacque nella storia recente dell’Iran. Una data simbolica perché rappresenta l’inizio di un periodo di potenziale destabilizzazione che non riguarda soltanto la Repubblica islamica, ma ha superato i confini arrivando a coinvolgere le piazze occidentali ed europee in particolare, sbarcando sui social, conquistando anche le prime pagine dei media e persino gli stadi del Qatar, in occasione della Coppa del mondo di calcio 2022. E’ il 13 settembre, giorno dell’arresto a Teheran di Mahsa Amini, la 22enne curda rea di non aver indossato correttamente il velo islamico, l’hijab obbligatorio per le donne dalla Rivoluzione del 1979, e morta poco dopo. Ufficialmente per le conseguenze di malattia pregressa, ma in realtà in circostanze che lasciano pensare che per la ragazza siano state fatali le violenze subite in carcere.
Da allora sono iniziate le proteste che hanno portato in strada soprattutto i giovani e le giovani, che hanno scandito slogan “Donne, vita e libertà!”, che hanno man mano riecheggiato anche nelle piazze delle capitali occidentali.
Ne è seguita una durissima repressione, che è arrivata a colpire non solo i manifestanti a Teheran, ma anche chi ha sfilato nelle vie di città minori in altre aree dell’Iran, in particolare nel sud est e nel nord ovest del Paese; aree “calde” dove il riaccendersi di tensioni mai sopite ora preoccupa e non poco gli osservatori, perché è specchio di una situazione di forti contrasti interni che non sono riducibili al solo movimento di emancipazione giovanile degli studenti delle università di Teheran, ma che si unisce e alimenta lo scontro con le etnie curde e azere presenti nella Repubblica islamica. Se tutto ciò si saldasse con i gravi problemi economici dell’Iran, il rischio è che la situazione possa diventare ancora più esplosiva. Per questo non è un caso che lo Stato sia ritenuto ancor di più un sorvegliato speciale da parte di Israele e degli Stati Uniti.
Una bomba che nessuno si aspettava? Una delle domande più ricorrenti riguarda la prevedibilità della situazione che si è creata in Iran, non nuovo in passato a manifestazioni di piazza e repressioni anche molto violente: “Sicuramente le proteste non sono una novità in Iran, specie negli ultimi anni. Ricordiamo quelle del 2009, per esempio, che sono state piuttosto ampie e represse in modo duro dal Governo, ma anche la serie di scontri registrati nel 2018 e nel 2019, che in qualche modo dimostravano un malcontento generalizzato per la situazione economica del Paese che è tutt’altro che rosea, specie a causa delle sanzioni internazionali”, commenta Tiziano Marino, analista del CeSI, Centro Studi Internazionali.
“In questo caso le proteste sono nate dall’uccisione di Mahsa Amini, originaria del Curdistan iraniano (e questo non è un dettaglio trascurabile), che si sono legate a istanze più tipicamente giovanili, studentesche e culturali. La vera caratteristica è proprio questa: l’avanguardia è studentesca e finora non si è verificata un’unione con il settore operario, che è quello più sensibile al malcontento economico. In passato si erano verificati, per esempio, diversi scioperi nei settori minerari e petroliferi, che questa volta non ci sono stati e non ci sono. La protesta, insomma, va avanti sul solo binario seguito dai giovani e in particolare dalle donne, tanto che il fulcro delle manifestazioni è nelle grandi città dove ci sono università, come a Teheran. Per usare due definizioni più tipicamente italiane, potremmo dire che quanto accade assomiglia più a un ‘68 studentesco che non a un ‘77 operaio”, osserva ancora Marino.
Dal centro alla periferia: quali scenari – La violenza con cui sono state represse le manifestazioni ha destato un’ondata di indignazione internazionale, ma c’è anche un altro aspetto preoccupante, che rischia di passare inosservato ed è ciò che sta accadendo alla “periferia” del Paese: “Se i cortei dei giovani sono sotto gli occhi di tutti, non si dà sufficiente risalto a quanto sta succedendo nel nord ovest e nel sud est, dove si trovano le minoranze curde (sunnite, in un Paese a maggioranza sciita) e azere. Nel primo caso c’è un forte risentimento da parte di questa fetta di popolazione nei confronti del Governo centrale, che si strascina da tempo. Nel secondo caso le istanze autonomiste pesano perché Teheran teme un eventuale allargamento dell’Azerbaijan a spese dell’Armenia. Non dimentichiamo che l’etnia azera, pur in mancanza di dati ufficiali, è stimata in circa il 20% - 25% della popolazione – prosegue l’analista – Oggi sono entrambi questi gruppi ad essere diventati l’epicentro reale della protesta, che ha perso il carattere nazionale, complice anche il fatto che manca una leadership vera tra i giovani, così come manca un’opposizione politica al governo”.
L’Europa, Israele e il rischio di destabilizzazione dell’area mediorientale - Il fatto che il dissenso giovanile man mano abbia subito un’evoluzione rappresenta un fattore di non poco conto di cui gli osservatori internazionali tengono conto, non solo in Medio Oriente, ma anche in Europa. Non è un caso che i fatti degli ultimi mesi arrivino proprio dopo il tentativo di “resuscitare” l’accordo sul nucleare iraniano, fortemente voluto dall’ex presidente statunitense, Barack Obama, e culminato con l’intesa del 2015. Bruxelles aveva presentato un testo "finale" per rilanciare il patto dopo quattro giorni di colloqui indiretti tra funzionari statunitensi e iraniani a Vienna, soprattutto alla luce della crisi energetica dovuta alla guerra in Ucraina. Anche Teheran lo scorso agosto premeva per arrivare a una conclusione, dopo oltre 15 mesi di negoziazione, ma l’ondata di scontri iniziata a settembre ha di fatto congelato tutto.
Quanto accade, però, non riguarda solo i rapporti tra Iran, Europa e Usa, ma anche gli assetti regionali. “Gli scontri si sono intensificati nelle aree periferiche del Paese, come al confine con l’Iraq che è considerato da Teheran particolarmente “poroso”, con componenti che si muovono con facilità a cavallo della frontiera. Non a casa anche lo stesso regime iraniano ha dipinto le proteste come legate ai curdi, mettendo in atto una forte repressione: gli attacchi da parte delle guardie rivoluzionarie sono volti soprattutto a evitare il possibile passaggio di armi e fondi dall’Iraq curdo alle stesse etnie che protestano in Iran, dunque in sostanza a scongiurare una vera ‘lotta armata’ nel Paese”, sottolinea l’analista CeSI. “Un ultimo aspetto riguarda anche la zona sud est, dove la componente sunnita è prevalente e che si trova al confine con il Pakistan, dove operano gruppi jihadisti che hanno cavalcato le proteste. Anche qui ci sono stati attacchi armati contro forze di sicurezza iraniane. Per questo la situazione resta incandescente”.
L’Iran, insomma, resta un attore che, se destabilizzato, potrebbe creare problemi in tutta l’area e questo lo sa bene Israele, che è considerato ‘il braccio statunitense’ nell’area mediorientale. In questo caso, ciò che Tel Aviv teme maggiormente è il proseguimento del programma nucleare iraniano e il ritorno come premier di Benjamin Netanyahu non lascia spazio a un futuro di distensione nei rapporti”, spiega Marino.
Gli Usa e l’Iran: cosa cambia dopo il voto di Midterm - Intanto gli Stati Uniti sono reduci da un voto di MidTerm che ha modificato in parte gli equilibri all’interno del Congresso statunitense, con una Camera a maggioranza repubblicana mentre il Senato rimane ai Democratici. Se il rischio della cosiddetta “anatra azzoppata” per il presidente Joe Biden è scongiurato, è pur vero che i suoi margini di azione sono in parte ridotti. Che ne sarà, dunque, dell’accordo sul nucleare iraniano? Ad interrogarsi è stata, già tempo fa, Barbara Slavin: la direttrice della Future of Iran Initiative è convinta che il Congresso non bloccherà l’intesa, qualora si arrivi davvero a una modifica di quanto sottoscritto nel 2015 dall’allora capo della Casa Bianca, Barack Obama. Resta, comunque, un sostegno indiretto degli Usa ai movimenti di protesta iraniani, insieme a una netta condanna della fornitura di droni di Teheran all’Ucraina. Ancora una volta, dunque, quanto accade nella Repubblica islamica non è una questione prettamente iraniana.
Un dopo Khamenei? – L’ultimo aspetto di incertezza riguarda i rapporti di potere interni all’Iran, dopo le voci sulla salute dell’Ayatollah Khamenei (e persino di una sua morte e sepoltura, già avvenute). “Se ne parla da mesi, ma non ci sono informazioni ufficiali. Il solo fatto che se ne parli è destabilizzante: sono molte le componenti, ufficialmente allineate, ma di fatto conflittuali nella gestione interna del potere – conclude Tiziano Marino – Non è possibile fare previsioni su una eventuale successione, come non è per Putin, anch’egli periodicamente al centro di speculazioni su possibili malattie di cui soffrirebbe. Comunque se la componente giovanile di protesta non si legherà a quella operaia il regime avrà poco da temere”.