L’algoritmo della coscienza: le nuove frontiere del senso ai tempi dell’IA/The Algorithm of Consciousness: New Frontiers of Meaning in the Age of AI

14.12.2024

"Che si creda in un creatore o semplicemente in una Creazione, noi tutti sappiamo che si semina sempre ciò che si raccoglie". Le parole di Naomi Oreskes ed Erik Conway, nell'introduzione all'edizione italiana de Il crollo della civiltà occidentale (p. 18), lasciano affiorare la permeabilità tra evoluzione scientifica e prospettiva religiosa, inevitabilmente pervasi da una forma di escatologia razionale. Mai come oggi la capacità di conoscere il mondo e di interpretarne la complessità ci pone di fronte alla sfida di un nuovo rapporto con l'invisibile. Mai come oggi è necessario ripensare radicalmente il senso dell'immateriale, nell'evidenza dell'efficacia operativa e profondamente concreta di una intangibilità apparente. Abituati come siamo, nel mondo odierno, a considerare immaginario ciò che non si può vedere, scivoliamo nel malinteso dell'irrealtà di ciò che non tocchiamo con mano. Senza rendercene conto, abbiamo considerato l'accelerazione progressiva dei processi di digitalizzazione come mera evoluzione tecnologica, cedendo, un giorno dopo l'altro, il controllo delle nostre informazioni, dei nostri pensieri, delle nostre decisioni. Senza rendercene conto, abbiamo progressivamente esternalizzato la nostra capacità interpretativa e la nostra libertà comportamentale, lasciando che quell'invisibile apparentemente irrilevante rendesse quasi superflua la fisicità del nostro essere nel mondo, in relazione con il mondo, condeterminati dal mondo. Siamo quotidianamente vittime dell'assottigliamento della nostra autonomia semantica: dall'ambiguità del linguaggio alla sua approssimazione, dall'approssimazione all'inefficacia, dall'inefficacia all'irrilevanza, dall'irrilevanza alla manipolabilità. Nel mondo digitalizzato, in cui la realtà viene vista e vissuta attraverso filtri ricodificati e determinati algoritmicamente, la parola, il suo valore espressivo e la sua rilevanza esistenziale acquistano nuovo significato e nuovo valore.

"Dove c'è linguaggio, c'è vita". Chiara Valerio, nel suo La tecnologia è religione, riassume in una frase il senso vero della necessità di comprendere le logiche alla base del codice (p. 13). In un'esperienza esistenziale che viene rappresentata dal codice, scomposta in sequenze di codice, tracciata da evoluzioni del codice, indirizzata dall'efficacia del codice, non possiamo non vivere la digitalizzazione come una sfida del senso e dei sensi. Dobbiamo riappropriarci del senso delle parole, di ogni singola parola, cogliendone pienamente e sfidandone la complessità, l'affidabilità descrittiva, la capacità evocativa, l'efficacia operativa. Dobbiamo ricominciare a prestare attenzione ai sensi, disintermediando l'esperienza del mondo, diffidando della presunta pienezza rappresentativa (non di rado distorcente) di sistemi concepiti come amplificatori esistenziali. Dobbiamo ricominciare a interrogarci sul senso di ciò che stiamo facendo, di ciò che abbiamo fatto, di ciò che vogliamo fare, del nostro futuro e nel nostro futuro. Un ripristino del senso del linguaggio (la matrice alla base dell'esperienza intellettuale), mediato dalla riappropriazione dei sensi (la dimensione esperienziale che incarna la conoscenza sensoriale), per cercare una nuova prospettiva nella costruzione del senso. Forse avremmo dovuto riflettere con più attenzione, o con più cura, anni fa, quando le tecnologie digitali stavano irrompendo nelle nostre vite, per cercare di analizzare criticamente, in tempo reale, la profonda trasformazione antropologica che stava prendendo forma, rispetto ad uno scenario che, in poco tempo, ha radicalmente trasformato le nostre vite e che oggi, istintivamente, consideriamo irreversibile. O che forse, semplicemente, siamo spinti a considerare tale.

Aimar Grégory, in un recente articolo pubblicato su Futuribles, evoca lo spettro del messianismo, nella composizione dell'immaginario tecnologico e della retorica utilizzata dalle big tech per raccontare l'onnipotenza e la necessarietà delle tecnologie che producono: "una tecnoreligione con i suoi adepti, i suoi profeti e il suo dio: l'intelligenza artificiale" (Futuribles, n. 463, p. 6). Per quanto possano sembrare mondi distanti, apparentemente impermeabili l'uno rispetto all'altro, ci troviamo, oggi, a vivere una fluidità esperienziale tra dimensione religiosa e potenzialità tecnologiche. Dalle mitologie fondative alla sacralizzazione dei simboli, dalla ritualizzazione di oggetti iconici alla rappresentazione carismatica dei leader, stiamo assistendo ad una diffusa estensione dei tratti caratteristici della fenomenologia delle religioni alla percezione collettiva di brand del mondo tech. Al contempo, la nostra stessa esperienza nella relazione con il non-umano, o con il più-che-umano, sta progressivamente trasferendo una nuova centralità di senso dalla trascendenza - per come l'abbiamo sempre intesa - ad un'inedita immanenza intangibile. Le nostre comunità si compongono, interagiscono ed evolvono sulle piattaforme, spazi digitali creati, posseduti e gestiti da aziende private che capitalizzano - non solo monetizzandola in maniera immediata - la nostra attenzione. La gamification dell'interazione - il bisogno fisiologico di collezionare like - ha sempre più ristretto le maglie del nostro campo di relazione, alimentando meccanismi di adeguamento dell'identità individuale alle aspettative potenziali dell'audience. Senza volerlo, stiamo cedendo alla forma più strisciante e incontrollabile di spersonalizzazione, con conseguenze ad oggi imprevedibili anche a livello di articolazione sociale e di riformulazione delle dinamiche democratiche. Eppure, in questo stravolgimento delle identità, abbiamo digitalizzato lo spazio della nostra intimità, della nostra memoria, finanche della nostra coscienza, cedendo la voce della nostra interiorità e il tracciamento dei nostri comportamenti più riservati a spazi digitali esterni. La nostra ricerca di risposte, oggi più che mai, ha separato la ricerca dell'informazione dalla ricerca del senso, riconducendo a nozioni e a sequenze di istruzioni la natura liquida delle grandi domande.

Se da una parte l'evoluzione tecnologica sempre più evoca l'urgenza di una riflessione collettiva sulle implicazioni etiche dell'intelligenza artificiale, dall'altra, più o meno consapevolmente, ci scontriamo con una tendenza all'egemonizzazione della stessa concezione di etica, schiacciata su un modello socio-economico ed una visione del mondo di tradizione tendenzialmente cristiana ed eurocentrica. L'esperienza, tuttavia, ci mostra con evidenza quanto l'accelerazione scientifica abbia bisogno, soprattutto rispetto a tecnologie con implicazioni di carattere cognitivo, di consolidare la capacità di porsi domande, di interrogarsi davvero sul carattere essenziale del cambiamento, anziché semplicemente sul suo carattere funzionale, a partire da prospettive socio-culturali il più possibile eterogenee. Per quanto possa apparire come una tensione in qualche modo anacronistica, o come una vera e propria forzatura epistemologica, mai come ora avremmo bisogno di un nuovo ruolo della religione - delle religioni - come motore critico, come contesto comunitario dialogante, come sistema culturale risemantizzante. Mai come ora, di fronte ad una tecnologia invisibile, avremmo bisogno di chi, sulla comprensione dell'invisibile, ha fondato la propria storia.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi di settore, da una parte cercando di analizzare l'evoluzione tecnologica come un fenomeno religioso, e dall'altra studiando il modo in cui le religioni hanno incorporato l'IA nella propria riflessione teologico-culturale e nel perseguimento della propria missione. Concentrandoci su quest'ultima prospettiva, non sono certamente mancati gli studi condotti da leader religiosi e progetti indotti dall'inquietudine di determinati contesti religiosi e spirituali: da padre Phillip Larrey a padre Paolo Benanti, dal rabbino Eliezer Simha Weisz allo sheykh Hamza Yusuf, dal monaco buddista Tensho Goto al progetto di incorporamento dell'etica maori nel design dell'IA. Uno scenario di riflessione che soltanto oggi si sta aprendo, seppure in modo ancora molto vacillante, alle diverse cosmologie che caratterizzano i sistemi culturali a livello globale. Tra tante prospettive, però, che fortunatamente e necessariamente contribuiscono ad alimentare un dibattito pluralista, riteniamo oggi fondamentale citare il libro Religion and Artificial Intelligence. An Introduction, scritto da Beth Singler, Professoressa Associata di Digital Religion(s) all'Università di Zurigo. Tra tante riflessioni che rimescolano, con una fine capacità critica, tradizioni religiose, transumanesimo, postumanesimo e nuove spiritualità, Singler propone un framework di analisi, che consideriamo particolarmente efficace, che differenzia tre possibili tipi di reazione e di relazione dell'AI con le religioni, con il modo in cui vengono concepite, vissute, raccontate: rifiuto, adozione, adattamento. A partire dall'analisi di numerosi episodi, di contesti eterogenei e di fenomeni in corso d'evoluzione, prende progressivamente forma uno scenario sfaccettato, frammentario, a volte apparentemente contraddittorio. Ciò che emerge con chiarezza è un atteggiamento, più o meno esplicito, di timore, di fronte ad una tecnologia di cui, ad oggi, è difficile delineare con chiarezza i confini d'azione e l'orizzonte di riferimento. Un timore che in alcuni casi alimenta una volontà proattiva di comprensione, laddove non addirittura di integrazione, e in altri genera reazioni di chiusura, di rifiuto, se non addirittura di condanna. Un libro di cui non vogliamo anticipare le conclusioni, che si svelano, efficacemente, come un'apertura di futuri possibili, legati a variabili in movimento di cui difficilmente possiamo prevedere - o anche semplicemente cercare di intuire - le traiettorie.

Viviamo in un mondo che richiede rapidità, che ha fatto della performance un vero e proprio oggetto di culto, che considera, troppo spesso, il tempo di riflessione come un tempo di inefficienza. Viviamo in un mondo che, paradossalmente, sta fondando sull'intangibilità della tecnologia il nuovo materialismo dell'esistenza, risemantizzando il senso stesso dell'esperienza dell'invisibile. Viviamo in un mondo in cui tutto è convertibile in dati, dalla natura ondivaga della nostra attenzione all'espressione implicita dei nostri desideri, dall'evidenza sfacciata dei nostri consumi alle briciole apparentemente irrilevanti di ogni nostro minimo comportamento. Senza porci troppe domande, stiamo esponendo la nostra stessa intimità religiosa ad una nuova soglia di rischio, fino ad oggi inimmaginabile. Dalla digitalizzazione della ritualità all'automazione delle intenzioni, dalla ingovernabilità delle verità alla commodificazione della spiritualità, stiamo lentamente cedendo terreno ad una progressiva privatizzazione di un'intimità che, fino a ieri, rappresentava il più prezioso - oserei dire il più sacro - degli spazi a nostra disposizione. Quello in cui, liberi dal rumore del mondo e dalla rigidità della logica, potevamo cercare il coraggio per nutrire la nostra capacità di immaginare oltre ogni limite e di sperare oltre ogni dolore, di condividere oltre ogni fragilità e di abbandonarci oltre ogni insicurezza. Mai come ora è importante cercare di comprendere la storia delle religioni del nostro presente, per cercare di interrogarci su quale vogliamo che sia l'orizzonte delle nostre ricerche di senso. È importante, oggi, cercare di comprendere l'impatto delle nuove tecnologie sull'evoluzione della religione, per cercare di proteggere, nella fragilità delle nostre esistenze, il valore sostanziale del dubbio. Per cogliere ed accettare il senso dell'inafferrabilità di una verità che, nel non rivelarsi, da sempre ci invita costantemente a crescere.

The Algorithm of Consciousness: New Frontiers of Meaning in the Age of AI

"Whether one believes in a Creator or simply in Creation, we all know that we reap what we sow." The words of Naomi Oreskes and Erik Conway, in the introduction to the Italian edition of The Collapse of Western Civilization (p. 18), highlight the permeability between scientific evolution and religious perspective, inevitably imbued with a form of rational eschatology. Never before has our ability to understand the world and interpret its complexity confronted us with the challenge of a new relationship with the invisible. Never before has it been so necessary to radically rethink the meaning of the immaterial, in light of the evident operational and profoundly concrete efficacy of an apparent intangibility. Accustomed as we are, in today's world, to considering as imaginary what cannot be seen, we fall into the misunderstanding of the unreality of what we cannot touch with our hands. Without realizing it, we have regarded the progressive acceleration of digitalization processes as mere technological evolution, surrendering, day by day, control over our information, our thoughts, and our decisions. Without realizing it, we have progressively outsourced our interpretative capacity and our behavioral freedom, allowing that seemingly irrelevant invisibility to render almost superfluous the physicality of our being in the world, in relation to the world, co-determined by the world. We are daily victims of the thinning of our semantic autonomy: from the ambiguity of language to its approximation, from approximation to inefficacy, from inefficacy to irrelevance, from irrelevance to manipulability. In the digitalized world, where reality is seen and experienced through algorithmically determined and recoded filters, words, their expressive value, and their existential relevance acquire new meaning and importance.

"Whether one believes in a Creator or simply in Creation, we all know that we reap what we sow." The words of Naomi Oreskes and Erik Conway, in the introduction to the Italian edition of The Collapse of Western Civilization (p. 18), highlight the permeability between scientific evolution and religious perspective, inevitably imbued with a form of rational eschatology. Never before has our ability to understand the world and interpret its complexity confronted us with the challenge of a new relationship with the invisible. Never before has it been so necessary to radically rethink the meaning of the immaterial, in light of the evident operational and profoundly concrete efficacy of an apparent intangibility. Accustomed as we are, in today's world, to considering as imaginary what cannot be seen, we fall into the misunderstanding of the unreality of what we cannot touch with our hands. Without realizing it, we have regarded the progressive acceleration of digitalization processes as mere technological evolution, surrendering, day by day, control over our information, our thoughts, and our decisions. Without realizing it, we have progressively outsourced our interpretative capacity and our behavioral freedom, allowing that seemingly irrelevant invisibility to render almost superfluous the physicality of our being in the world, in relation to the world, co-determined by the world. We are daily victims of the thinning of our semantic autonomy: from the ambiguity of language to its approximation, from approximation to inefficacy, from inefficacy to irrelevance, from irrelevance to manipulability. In the digitalized world, where reality is seen and experienced through algorithmically determined and recoded filters, words, their expressive value, and their existential relevance acquire new meaning and importance.

"Where there is language, there is life." Chiara Valerio, in her Religion is Technology, encapsulates in a single phrase the true meaning of the need to understand the logic underlying code (p. 13). In an existential experience represented by code, broken down into sequences of code, traced by the evolution of code, and directed by the efficacy of code, we cannot help but experience digitalization as a challenge of meaning and of the senses. We must reclaim the meaning of words, every single word, fully grasping and challenging their complexity, their descriptive reliability, their evocative power, and their operational effectiveness. We need to start paying attention to the senses again, disintermediating our experience of the world, and questioning the supposed representational fullness (often distorting) of systems designed as existential amplifiers. We must begin once more to ask ourselves about the meaning of what we are doing, what we have done, what we want to do, about our future and in our future. A restoration of the meaning of language (the matrix underlying intellectual experience), mediated by a reclamation of the senses (the experiential dimension that embodies sensory knowledge), is needed to seek a new perspective in the construction of meaning. Perhaps we should have reflected more carefully, or more attentively, years ago, when digital technologies began breaking into our lives, to critically analyze, in real time, the profound anthropological transformation taking shape. This transformation, in a short time, radically changed our lives, and today we instinctively consider it irreversible—or perhaps we are simply driven to perceive it as such.

Aimar Grégory, in a recent article published in Futuribles, invokes the specter of messianism in the shaping of the technological imaginary and the rhetoric employed by big tech companies to narrate the omnipotence and inevitability of the technologies they produce: "a techno-religion with its followers, its prophets, and its god: artificial intelligence" (no. 463, p. 6). As distant as these worlds might seem, apparently impermeable to one another, we find ourselves today living in an experiential fluidity between religious dimensions and technological potentials. From foundational mythologies to the sanctification of symbols, from the ritualization of iconic objects to the charismatic representation of leaders, we are witnessing a widespread extension of the characteristic traits of the phenomenology of religions into the collective perception of tech world brands. At the same time, our very experience in relating to the non-human, or the more-than-human, is progressively shifting a new centrality of meaning from transcendence—as we have traditionally understood it—to an unprecedented, intangible immanence. Our communities form, interact, and evolve on platforms, digital spaces created, owned, and managed by private companies that capitalize—beyond immediate monetization—on our attention. The gamification of interaction—the physiological need to collect likes—has increasingly narrowed the mesh of our relational field, fueling mechanisms of individual identity adjustment to the potential expectations of an audience. Unwittingly, we are succumbing to the most insidious and uncontrollable form of depersonalization, with consequences that remain unpredictable even at the level of social articulation and the reformulation of democratic dynamics. Yet, in this upheaval of identities, we have digitized the space of our intimacy, our memory, even our consciousness, relinquishing the voice of our inner self and the tracking of our most private behaviors to external digital spaces. Our search for answers, now more than ever, has severed the pursuit of information from the pursuit of meaning, reducing the fluid nature of life's big questions to notions and sequences of instructions.

On one hand, the rapid evolution of technology increasingly highlights the urgency of a collective reflection on the ethical implications of artificial intelligence. On the other hand, whether consciously or unconsciously, we are confronted with a tendency to hegemonize the very concept of ethics, narrowing it to a socio-economic model and worldview rooted in a predominantly Christian and Eurocentric tradition. Experience, however, clearly shows us how much scientific acceleration, particularly regarding technologies with cognitive implications, requires a strengthened capacity to ask questions—truly to interrogate the essential nature of change rather than merely its functional aspects. This must start from socio-cultural perspectives as diverse as possible. Although it might seem like an anachronistic tension or even an epistemological imposition, there has never been a greater need for a new role for religion—and religions—as a critical engine, a dialoguing community framework, and a cultural system capable of resemantization. Now more than ever, in the face of invisible technologies, we need those who have built their histories on understanding the invisible.

In recent years, there has been a proliferation of studies examining technology as a religious phenomenon on the one hand, and on the other, exploring how religions have incorporated AI into their theological-cultural reflections and in pursuing their missions. Focusing on the latter perspective, numerous contributions have emerged from religious leaders and initiatives driven by the concerns of specific spiritual and religious contexts: from Father Phillip Larrey to Father Paolo Benanti, Rabbi Eliezer Simha Weisz to Sheikh Hamza Yusuf, Buddhist monk Tensho Goto, and even the project incorporating Maori ethics into AI design. This emerging landscape of reflection is only now beginning to open up, albeit tentatively, to the diverse cosmologies characterizing cultural systems globally. Among the various perspectives that contribute—fortunately and necessarily—to fostering a pluralistic debate, it is essential to highlight the book Religion and Artificial Intelligence: An Introduction by Beth Singler, Associate Professor of Digital Religion(s) at the University of Zurich. Singler weaves a nuanced and critically sharp dialogue between religious traditions, transhumanism, posthumanism, and new spiritualities. She offers a particularly effective analytical framework that distinguishes three possible types of reactions and relationships between AI and religions, encompassing their conceptualization, experience, and narratives: rejection, adoption, and adaptation. Through an analysis of numerous episodes, heterogeneous contexts, and ongoing phenomena, Singler paints a multifaceted, fragmented, and at times seemingly contradictory picture. What clearly emerges is an implicit or explicit sense of fear toward a technology whose boundaries of action and horizon of reference are still challenging to define. In some cases, this fear fuels a proactive desire for understanding, or even integration, while in others, it provokes reactions of rejection or outright condemnation. Without revealing its conclusions, the book effectively leaves readers with an opening to multiple possible futures, tied to dynamic variables whose trajectories are difficult to predict—or even to intuit.

We live in a world that demands speed, that has turned performance into an object of worship, and too often considers time for reflection as time wasted in inefficiency. Paradoxically, we are building the new materialism of existence on the intangibility of technology, redefining the very meaning of experiencing the invisible. We live in a world where everything is convertible into data: from the fleeting nature of our attention to the implicit expression of our desires, from the blatant evidence of our consumption to the seemingly irrelevant breadcrumbs of our every smallest behavior. Without asking too many questions, we are exposing our most intimate religious experiences to a new threshold of risk, unimaginable until now. From the digitalization of rituals to the automation of intentions, from the ungovernability of truths to the commodification of spirituality, we are gradually ceding ground to the privatization of intimacy—an intimacy that, until yesterday, represented the most precious, dare I say the most sacred, of spaces available to us. It is the space where, free from the noise of the world and the rigidity of logic, we could find the courage to nurture our capacity to imagine beyond all limits, to hope beyond all pain, to share beyond all fragility, and to surrender beyond all insecurity. Now more than ever, it is crucial to understand the history of religions in our present to reflect on what we want the horizon of our search for meaning to be. It is vital today to examine the impact of new technologies on the evolution of religion in order to protect, amid the fragility of our lives, the essential value of doubt. To grasp and accept the significance of a truth that, in its elusiveness, has always invited us to grow.

Luca BARALDI