USA: La politica estera nel programma elettorale repubblicano/USA: Foreign policy in the Republican electoral program
Il leitmotiv che accompagna ogni elezione americana si può semplificare con "la politica estera non porta voti". Ma in non pochi casi, è stata proprio la politica estera a decretare la prematura fine politica di presidenti pronti ad agguantare il secondo mandato, basti pensare a Johnson e il Vietnam o Carter e Teheran. Inoltre, i più recenti studi sui flussi elettorali, mostrano come la flessione dei voti per i democratici sia dovuta, in parte, al silenzio di Kamala Harris sull'assetto futuro dei teatri di guerra mediorientale ed europeo. Proprio la politica estera può rappresentare per i repubblicani un prezioso alleato. Il quadriennio democratico è stato un annus horribilis, tra un Netanyahu non proprio collaborativo, uno Zelensky non proprio pacifista, un Putin e una Cina appellanti a un nuovo ordine globale. I Repubblicani appaiono come uno schieramento più unitario e coeso: la presenza monopolizzatrice di Trump e l'assenza di un'ala moderata fanno sì che non vi sia quell'incertezza tipicamente democratica, dove ha pesato qualche voce critica riguardo la gestione meramente militare dei recenti conflitti. Lo staff di Trump non manca di sottolineare come una sua elezione segnerebbe un cambio di rotta radicale. Infatti, per il Tycoon, il conflitto russo-ucraino si chiuderebbe entro ventiquattro ore, attraverso la sospensione degli aiuti finanziari all'esercito ucraino.
Ciò non deve essere tradotto in una resa totale alle condizioni putiniane, però spingerebbe definitivamente Kyiv al tavolo delle trattative. Sul Medio-Oriente, fu emblematica la decisione, durante la presidenza 2016-2020, di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
Anche oggi, i repubblicani concordano sul lasciare piena libertà di agire, a Gaza e in Cisgiordania, al governo israeliano. Le divergenze maggiori rispetto ai democratici vanno ricercate nell'atteggiamento verso la corsa agli armamenti degli attori medio-orientali. Trump spingerebbe molto più duramente contro l'Iran e la sua politica muscolare sul nucleare, rinegoziando i precedenti accordi. Per lo scenario cinese, i repubblicani parlano di un netto disaccoppiamento commerciale (decoupling), da attuarsi per mezzo di alte tariffe, restrizioni all'export e pressione sui paesi terzi, europei inclusi, affinché riducano i loro affari con Pechino, in settori tecnologici sensibili. In estrema sintesi: molte di queste misure sono condivise dagli stessi democratici, con una distanza maggiore riguardo l'Ucraina. Ma Trump è ormai l'esponente quasi fenotipico di una politica estera conservatrice: gli Stati Uniti prenderanno le loro decisioni unilateralmente, senza consultarsi con gli alleati NATO e indipendentemente dal fatto che questi li seguano o meno. In altre parole, America first. Anche in politica estera, anche se in gioco vi è un nuovo equilibrio mondiale.
USA: Foreign policy in the Republican electoral program
The leitmotif that accompanies every American election can be simplified with "foreign policy not brings votes." But in quite a few cases, it was foreign policy itself that decreed the premature end politics of presidents ready to grab a second term, just think of Johnson and Vietnam or Carter and Tehran. Furthermore, the most recent studies on electoral flows show how the decline of votes for the Democrats is due, in part, to Kamala Harris' silence on the future structure of theaters of Middle Eastern and European war. Precisely foreign policy can represent for the Republicans a precious ally. The democratic four-year period was an annus horribilis, between a non-Netanyahu truly collaborative, a Zelensky who is not exactly pacifist, a Putin and a China appealing to a new global order. The Republicans appear as a more unitary and cohesive group: the Trump's monopolizing presence and the absence of a moderate wing mean that there is none that typically democratic uncertainty, where some critical voices regarding the management weighed merely military of recent conflicts. Trump's staff does not fail to point out how it is his election would mark a radical change of direction. In fact, for the Tycoon, the Russian-Ukrainian conflict does it would close within twenty-four hours, through the suspension of financial aid to the army Ukrainian.
This must not be translated into a total surrender to Putin's conditions, but it would push Kyiv definitively at the negotiating table. In the Middle East, the decision was emblematic, during the 2016-2020 presidency, to move the American embassy from Tel Aviv to Jerusalem. Even today, Republicans agree to leave full freedom to act, in Gaza and the West Bank, to the Israeli government. The major differences with respect to the Democrats must be sought in the attitude towards the arms race of Middle Eastern actors. Trump would push much harder against Iran and its muscular nuclear policy, renegotiating the previous agreements. For the Chinese scenario, Republicans talk about a clear decoupling commercial (decoupling), to be implemented through high tariffs, export restrictions and pressure on third countries, including Europeans, to reduce their business with Beijing in technological sectors sensitive.
In a nutshell: many of these measures are shared by the Democrats themselves, with a distance greater regarding Ukraine. But Trump is now the almost phenotypical exponent of a foreign policy conservative: the United States will make its decisions unilaterally, without consulting with the NATO allies and whether they follow them or not. In other words, America first. Even in foreign policy, even if there is a new world balance at stake.
Erij Derouiche